
Il Garum. Un pilastro (quasi) dimenticato della cucina
Molti cuochi odierni non riconoscono la parola “garum” all’interno del loro vocabolario culinario; questo perché la ricetta di tale preparazione è antica quanto il suo nome.
Riconosciuta come un’antica salsa di pesce romana, esso prende il nome dalla parola greca garon (γάρον) che stava ad indicare il pesce con cui si faceva tale salsa.
La storia è antichissima e piena di sfaccettature interessanti.
Scopriamola insieme.
La storia del garum
La storia del garum inizia in Nord Africa 2500 anni fa, quando la famosa metropoli fenicia di Cartagine era un sicuro porto in quella che è l’odierna Tunisia.
All’interno delle mura vi erano fiorenti mercati dove il pesce pescato nel Mar Mediterraneo (tonni, sgombri, sardine ecc.) veniva affettato finemente, comprese le scaglie, le teste e le interiora per poi essere disposte a strati con abbondante sale in vasche di calcare, coperte con una fitta rete e lasciate fermentare.
Il calore del sole cuoceva letteralmente il pesce, mentre l’esosa quantità di sale preveniva la propagazione di microbi dannosi e, ancora più importante, le viscere del pesce contenevano enzimi che alimentavano la trasformazione del pesce in un prelibato e “carico” condimento.

I cartaginesi dominarono il Mediterraneo per 500 anni, fino all’arrivo del dominio romano e, con l’arrivo dei Romani, la cosiddetta preparazione venne portata in Sicilia, che fu un enorme centro di produzione nell’antico Impero Romano. Non è del tutto chiaro come, e soprattutto perché, il garum sia passato di moda in occidente. L’ultima traccia di garum in Europa è la colatura di alici, prodotta nel piccolo villaggio di Cetara, in Campania. Tuttavia la salsa di pesce rimane un fondamento della cucina del sud-est asiatico ed un ingrediente con il quale alcuni di noi hanno più familiarità.
I meccanismi di produzione
Il metodo tradizionale per la preparazione del garum abbina la fermentazione spontanea con la cosiddetta autolisi (un termine che risulterà familiare ai panificatori). Si definisce processo autolitico un processo nel quale il tessuto e/o le cellule di un organismo vengono scomposti da diversi enzimi prodotti dall’organismo stesso. In poche parole, per fabbricare il garum si utilizza il normale processo digestivo di un animale su se stesso.
La carne di tutti gli animali contiene enzimi proteolitici ( degradano le proteine) che contribuiscono in maniera evidente all’autolisi.
A questo punto, se vi state domandando come mai, in questo preciso momento, non stiano divorando voi stessi è perché quei famosi enzimi sono presenti in quantità assai ridotte e nelle cellule sane di un organismo sono confinati all’interno di un organulo, noto anche come lisosoma. Ma quando l’animale muore i suoi enzimi agiscono sulla sua carne in maniera indiscriminata.
In particolare, i garum dipendono dagli enzimi presenti nel tratto gastrointestinale, che sono più concentrati e potenti. Difatti, quando il pesce tagliato viene posto nelle vasche col sale, i succhi digestivi presenti nello stomaco e gli enzimi intestinali entrano in contatto con la polpa del pesce, da cui sono normalmente tenuti separati.
I succhi e gli enzimi agiscono sulla polpa, scomponendo le proteine nei loro aminoacidi costituenti ed i grassi in acidi grassi.
Perché il sale?
Durante il processo, il sale accelera l’autolisi e protegge la preparazione da eventuali microbi nocivi. Inoltre, per agire in modo efficace, gli enzimi devono essere “sospesi” in un alimento liquido per facilitare i loro spostamenti da una catena proteica a un’altra, separandole in aminoacidi.
Il sale attira l’umidità dal pesce nel suo ambiente circostante grazie all’osmosi, generando così un ambiente fluido e denso (le soluzioni altamente salate proteggono dal deterioramento grazie a due meccanismi: l’osmosi e l’attività dell’acqua, che riguarda tutti i tipi di fermentazione)
Il calore, un elemento importante
Il calore gioca un ruolo molto importante in questa preparazione perché accelera le reazioni enzimatiche, il che spiega perché i garum erano lasciati fermentare sotto il sole (in un’antica estate cartaginese, le temperature si aggiravano intorno ai 30°C perciò è probabile che a quella temperatura il garum fosse pronto dopo 6-9 mesi).
Moltissimi professionisti (per esempio al Noma dal famoso chef Rene Redzepi) prediligono lasciare a fermentare il garum a 60°C, precludendo l’attività microbica e accelerando quella enzimatica.
L’acido glutammico
La molecola aromatica maggiormente responsabile della bontà del garum è l’acido glutammico, un aminoacido presente in quasi tutte le proteine.
Nella sua forma libera (ovvero non facente parte di una catena proteica) sì trova in concentrazioni particolarmente elevate nelle carni, nei formaggi, nei pomodori, nelle alghe e nel frumento.
Quando gli enzimi proteolitici in un recipiente di garum scindono le proteine nel pesce, liberano le molecole di acido glutammico, il quale cede una carica positiva libera per diventare glutammato. Quest’ultimo si lega agli ioni minerali come il sodio per formare il glutammato monosodico (GMS) che è il responsabile del sapore di alcuni cibi deliziosi come il ramen, il risotto ecc.
Si registra sulla lingua come umami: il “quinto elemento“.

In conclusione
Ci sarebbero molte altre cose di cui parlare ma ritengo che sia molto più produttivo consultare i vari libri che trattano l’argomento in maniera più specifica.
Uno di questi è “La guida alla fermentazione del Noma“, già recensito e consigliato in questo articolo [LINK].
Sta di fatto che il garum è una di quelle preparazioni che, nonostante questo periodo oscuro, rimane e rimarrà tra le ricette che hanno reso il “cucinare” un atto culturale.